12/08/16

PAPOSCIAMANESIMO



In ordine sparso, qualche nota sulla seconda edizione di Mukanda Festival, chiusasi venerdì scorso a Vico del Gargano (Foggia), e alla quale ho partecipato come invitato al talk di apertura su afrofuturismo e dintorni, e come DJ della festa a seguire alternandomi con il collega Andrea Mi (qui uno dei miei segmenti).

- Mukanda (letteralmente "guarire e rinforzarsi") è un rito di passaggio degli Ndembu, popolo dello Zambia: "(...) lo scopo principale del Mukanda è il trasformare i ragazzi in uomini. I meccanismi critici di questa trasformazione sono la rimozione dei ragazzi dalle cure delle loro madri, la loro circoncisione effettuata dai vecchi della tribù, che agiscono come esperti rituali, e un periodo di guarigione e istruzione in cui i ragazzi assumono nuovi compiti e identità sociali che rafforzano le relazioni con i loro padri, e infine una celebrazione comunitaria che riconosce il mutato status dei giovani uomini tornati nella loro società." (Tradotto da Ritual: Perspective and Dimensions di Catherine Bell).



- Il nome non è scelto a caso, visto che è la natura del festival stesso a ricordare a suo modo il rito di cui sopra. Non so se prima di andare a fare l'università al nord i vecchi di Vico li abbiano circoncisi, ma tutto nasce da un gruppo di ragazzi del paese che ogni estate mettono in pausa le loro vite da fuorisede (studenti e lavoratori) e tornano a casa. Con un'idea in più: non solo organizzare un festival musicale, ma organizzarlo nel centro storico di Vico. Fiore all'occhiello di uno dei Borghi più belli d'Italia, labirinto di viuzze e slarghi sorprendenti (vedi il fantastico largo del Conte qui sopra, una delle due location principali della manifestazione), case scavate nella pietra della cinta muraria e torri coniche, semiabbandonato da quando la gente ha cominciato a trasferirsi nella parte moderna del paese.

- Come in tantissimi altri posti del nostro sud, a Vico si sta meravigliosamente. A un quarto d'ora dal mare e a ridosso della Foresta Umbra, al fresco dei 450 metri sul livello del mare e con il costo della vita che potete immaginare (nel centro storico ci sono pure un sacco di cartelli "Vendesi", e pare che le case costino pure poco). Si sta meravigliosamente se hai un lavoro o qualche tipo di rendita, intendo. O se non cerchi stimoli da grande città. Altrimenti vai via, come i ragazzi di cui sopra e tantissimi altri, non solo a Vico.



- A Vico si sta meravigliosamente anche perché il suo prodotto più famoso è una cosa deliziosa come la paposcia. Qui spiegano bene cos'è, io mi limiterò a ripetere che è deliziosa, croccante fuori e morbida dentro, economica e mediamente enorme. Una specie di versione più leggera del panuozzo napoletano. Fra le varie farciture, spiccano a mio parere quelle più semplici e tradizionali: olio e pecorino, oppure la favolosa salicornia. Oppure olio, pecorino e salicornia (vedi foto), come da me richiesto alla signora della pizzeria/paposceria I Duje Port', che mi ha gentilmente accontentato e mi ha pure venduto un barattolo di salicornia sott'olio fatto apposta per me. Cos'è la salicornia? Prego.

- Dicevamo di Mukanda: al rito e al dialogo fra antico e moderno, radici e viaggio esperienziale, si rifà anche il cartellone del festival (tutto gratuito), firmato da un direttore artistico che con questo genere di cose va a nozze come Raffaele Costantino (che molti di voi conosceranno per l'ottimo Musicalbox, su Radio 2 Rai). Lui la chiama narrazione verticale, è un'ottima idea sulla carta e lo è pure nei fatti. Non ci sono nomi grossi messi lì per attirare la gente, ma nomi medio-piccoli di valore certificato, e la gente viene lo stesso perché tutti insieme sono qualcosa di più della somma delle parti.



- Nickodemus qui sopra, ad esempio, ha il triplo della fantasia del DJ medio, suona con tre cdj e fa il pandemonio. Anchorsong poi, pazzesco. Non solo per il movimento di gamba più FIGO mai visto su un palco, ma anche e soprattutto per quello che riesce a fare con un campionatore e basta (e una tastiera ogni tanto), suonato live con abilità e gusto pari alla tranquillità senza sforzo apparente con cui affronta il tutto. Quello che riesce a fare è musica non facile, eppure facilissima per come fa ballare qualche migliaio di persone. Musica che cambia in continuazione ma segue un filo, con svolte che riescono ad essere completamente inattese e la cosa giusta al momento giusto, insieme.
Peccato che il set audio/video dal vivo di Felix Laband sia stato interrotto troppe volte (cioè: più di zero volte) da problemi di natura tecnica, e proprio quando i crescendo del produttore sudafricano stavano per arrivare al culmine, fra l'altro. Ma il suo recente Deaf Safari resta un album di eccellente house sui generis, politica e creativa come non la si sentiva da tempo. Di Kalifa Kone ho sentito purtroppo solo la fine, ma se da un unico tamburo e due mani riesci a ottenere una ventina di suoni diversi (o a farci credere che siano una ventina, meglio ancora), c'è poco da aggiungere.



- Il giorno seguente, dopo le selezioni originali (spuntano pure cose Disco Halal) e il mix perfetto di DJ Hendrix, tocca alla techno organica ed evocativa, ma a dire il vero un poco monocorde, del superbarbuto President Bongo, ovvero Stephan Stephensen già Gus Gus. Un solo Gus ha invece nel nome d'arte Panagiotis Melidis, ovvero Larry Gus qui sopra, che organizza un live con macchine e pezzi di batteria, corre come un pazzo avanti e ineidtro, su e giù, e coinvolge la piazza piena con ritmi incalzanti, campioni strapazzati e cantato in falsetto, e dinamiche di crescendo e ripartenze euforiche che ricordano i migliori Animal Collective. Chiude tutto DJ Khalab, reduce dallo splendido album realizzato in coppia con Baba Sissoko e qui impegnato invece in un DJ set che fa ballare anche i muri spessissimi delle case del centro storico di Vico, ottima combinazione di spinta house e influenze multiculturali.



- Le parti in causa insomma vengono da una fetta di mondo bella e molto varia: Mali, Sudafrica, Giappone, Stati Uniti d'America, Islanda, Grecia, Italia. Quello del manifesto qui sopra invece non è un beduino di chissà quale tribù sahariana, ma un membro di una delle molte confraternite di Vico.



- Vico che è soprannominata addirittura "Città dell'amore", forse perché il suo santo patrono è nientemeno che San Valentino, protettore della città e soprattutto dei suoi agrumeti, da sempre fra i cardini della sua economia. Questo ed altro nella visita guidata del centro storico che i ragazzi di Mukanda - ciliegina sulla torta di un'organizzazione molto attenta, entusiasta e puntuale - offrono gratuitamente ogni pomeriggio nei giorni del festival.

- Un po' di musica per chiudere, con quello che è senza ombra di dubbio uno dei miei pezzi dell'estate, e dell'anno. Dedicata a Mukanda e a Intersos: #europasenzamuri!







04/01/16

Gli album del 2015 / I ritardatari

A classifica consegnata, esce sempre qualche disco che meriterebbe di stare nei primi dieci. O quantomeno di giocarsela. Tipo questi due.



Bienoise Meanwhile, Tomorrow (White Forest)
Un altro pezzo dell'esplosione di nuovi talenti elettronici nazionali,
protagonisti di uno sfondamento netto verso il pubblico indie. Un debutto straordinario, un disco come se ne sentono pochi e non solo in Italia. Quasi un'ora di musica che da radici house e techno sviluppa uno stile fatto di suoni apparentemente incongrui, sporcizia sonora e campionamenti da vecchie VHS integrati in un insieme scintillante, e dinamiche da pista piegate alla propria visione, in strutture tanto inusuali quanto efficaci. Non c'è un pezzo simile all'altro, ma il tutto suona come un unica, potente narrazione.

Focus Numbers apre con taglio minimale da scuola romena, groove che si ingrossa, voci sminuzzate e respiro soul. All the Future I Can Endure è 10' di pulsazione lenta e onde rumorose, stasi epiche e ripartenze da Weatherall circa Screamadelica. La title-track ha sembianze house underground pure, voce da diva inclusa, ma gli stab li fa un piano smagnetizzato. Dà Vita avanza fra synth acidi e breakbeat, e decolla senza che ci si accorga di come nel frattempo il beat si sia raddrizzato, in un implacabile crescendo psichedelico. Redundance è un treno, fra riff sincopati e palpitazioni tech-house a 135 bpm, cassa quasi dritta e clap in controtempo, frammento vocale ripetuto e ipnosi berlinese. Lui, Alberto Ricca, pare sia "tuttora indeciso se definire la sua una musica autistica o altruistica". Comunque vada, sarà un successo. (da Rumore n. 288)
Un arrivo dell'ultimo momento, un botto in extremis dal quasi esordiente Alberto Ricca, per una White Forest che chiude in bellezza un 2015 già notevole grazie agli album di Broke One e Furtherset, e al premio di migliore etichetta dell'anno assegnatole dal circuito Italian Quality Music Festivals. Meanwhile, Tomorrow è un album vero, che costruisce un discorso coerente e sfaccettato pescando da vari stili elettronici e uscendone nuovo, a tratti inaudito. House, campioni misteriosi, techno, psichedelia, rumori. Pista (un promo di Focus Numbers a Villalobos, presto!) e cervello. Il pensiero va a capolavori come Techno Primitivism di Juju & Jordash, o American Intelligence di Theo Parrish; non tanto per affinità precise, quanto per ampiezza dello sguardo e capacità di inserirsi in una tradizione rinnovandola. (da Soundwall)




*****



Hieroglyphic Being & J.I.T.U. Ahn-Sahm-Bul We Are Not The First (RVNG Intl.)
Già parecchio avventuroso nel suo approccio alla materia house, Jamal Moss alza il livello affiancando il suo alias più noto a un ensemble tarato su avanguardia e free jazz: la stella Marshall Allen, Shelley Hirsch, Shahzad Ismaily, Daniel Carter, Ben Vida, Elliott Levin; e un batterista black metal/psichedelico come Greg Fox (Liturgy, Guardian Alien). Fin troppo facile parlare di ponte steso fra la Chicago acida di Moss e quella afrofuturista di Sun Ra, ma We Are Not the First quello fa, e benissimo. Accogliendo ance ululanti, ritmi liberi, voci recitate o usate come strumento, synth modulari e un ribollire di 303, 808 e macchinari house affini in un flusso di musica in costante tensione positiva. Che culmina nei caldissimi 18'39" della conclusiva title-track: la BYG è viva e lotta insieme a noi. (da Rumore n. 288)

30/12/15

Gli album del 2015 / 1



1. Sufjan Stevens Carrie & Lowell (Asthmatic Kitty)

Uno che, badasse al portafoglio e all'ego, avrebbe capitalizzato da tempo su un talento enorme. E invece dal 2000 ha vagato fra progetti tanto affascinanti quanto improbabili (un album per ogni stato degli Usa: finora ne sono usciti due), divagazioni fra elettronica, classica e sperimentazione, messe a fuoco ripetute di uno stile già nitido da tempo. Quello che brilla in Carrie & Lowell, ridotto ai minimi termini di una voce, una chitarra acustica e poco altro. In undici canzoni intime e personali che ascoltate una volta non vi lasceranno più, nate da un'esigenza privata d'amore - Carrie è la madre, Lowell il suo compagno - e fattesi amore universale come capita solo con i fuoriclasse. (da Soundwall)


29/12/15

Gli album del 2015 / 2



2. Mbongwana Star From Kinshasa (World Circuit)

From Kinshasa to the Moon, in realtà. Come il brano che apre, e come la sensazione che subito vince. Un viaggio verso l'ignoto che spaventa ed elettrizza, unico riferimento in cielo la stella del cambiamento, mbongwana in Lingala. Cambiamento in opera nei presupposti e nei fatti. Dopo lo scioglimento degli Staff Benda Bilili, senzatetto paraplegici diventati fenomeno pop globale, i cinquantenni Coco Ngambali e Theo Nzonza ricominciano con tre di cui potrebbero essere padri, e col parigino Liam Farrell. Scordare il passato: l'incontro fra generazioni e culture è dirompente, i confini si fanno sfocati. Farrell non solo produce senza il rispetto verista che di solito muove i suoi omologhi, ma entra nel gruppo a tutti gli effetti, suona, campiona, distorce, dà e riceve in un rapporto alla pari senza limiti. I congolesi portano materiale straordinario, energia umana e minacciosa in parti uguali: tradizione in odore di rumba e spinta in avanti che ingloba bassi post-punk, chitarre rumorose, intrecci vocali imprendibili, echi, ritmi elettronici pulsanti (fino all'assalto di Suzanna, mostruosa techno berlinese con dolce cantato gospel), gli immancabili likembe elettrificati (a cura dei Konono N°1 in Malukayi). Tutto insieme è qualcosa che non si era ancora sentito, ed è fantastico. Un disco che alza il livello Congotronics di tre tacche, il migliore uscito fin qui dalla Kinshasa odierna. Afrofuturismo, per usare un termine in voga. Ma sul serio. (da Rumore n. 282/283)

28/12/15

Gli album del 2015 / 3



3. Sleater-Kinney No Cities To Love (Sub Pop)

Otto anni dopo, annunciate da un misterioso 7" inserito senza preavviso nel box antologico Start Together
, le stesse Sleater-Kinney di sempre. Non suoni come una bocciatura, anzi. Come un'affermazione di identità e sicurezza dei propri mezzi, piuttosto. Come conferma di una cosa che è stata ben chiara fin da subito: il gruppo appartiene alla ristretta cerchia di chi fa musica perché deve, senza ragionare a tavolino su come questa musica debba suonare, lasciando che venga fuori e basta, e lì cominciando a lavorare per darle la miglior forma possibile. Nessuno ha nemmeno provato ad imitarle, in questi anni di pausa. Come se fossero qualcosa di intoccabile, una sfida persa in partenza. Come i Fugazi, altro gruppo della cerchia, altro gruppo ufficialmente in pausa.

Poi certo, ci sono le sfumature. Rispetto alle bordate distorte di The Woods, questo No Cities to Love suona piuttosto come un ritorno al clima fresco e immediato degli album precedenti, ma con la potenza accumulata strada facendo come bonus. Brucia di un'urgenza che ci piacerebbe trovare in ogni lavoro di un gruppo riunito dopo tanto tempo, ed entra subito in testa. C'è anche una netta intenzione funk, nella declinazione bianca e tagliente nata con il post-punk, che emerge in modo più o meno esplicito. Come se le tre avessero scoperto adesso, naturalmente a modo loro, i Franz Ferdinand del primo album, che per quanto démodé possa apparire la citazione restano una delle migliori ipotesi di lavoro pop su quel suono. Ci sono anche quattro o cinque delle migliori canzoni mai firmate dal trio, e una carica in fondo prevedibile, ma non fino a questo punto. Di meglio non si poteva sperare.


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